Due volte in due giorni: sarà un caso, ma mi ha spinto a raccontarvi alcuni fatti e una mia preoccupazione. Questa settimana mi è capitato di interagire con due aziende, neanche tanto piccole (qualche decina di dipendenti e qualche milione di fatturato) che stanno approcciando i social media in un modo che mi fa rabbrividire.
Una mi dice " ci siamo iscritti su Twitter" e prosegue nel discorso. Dal quale capisco che intendono usare Twitter per dare notizie sulle loro ultime novità. Una specie di bacheca virtuale. Interazione? Comunicazione? Diffusione di idee? Quelle (forse) verranno dopo, ora bisogna cominciare, perchè "in alto" hanno deciso così. Inutile tentare di spiegare che se non si hanno le idee chiare forse è meglio aspettare perchè si possono anche fare dei danni, magari, che la Rete si accorge se uno è imbranato e non perdona gli sbagli, anzi è pronta con gli sberleffi soprattutto se si tratta di un "nome" importante.
L'altra azienda ha un profilo personale Facebook (non una pagina) dove pubblica le foto delle feste aziendali e da cui mi invita agli eventi di prova del loro prodotto, oltre a pettegolezzi vari e altre amenità.
E siamo a Milano, non a Lampedusa o Civitella Paganica. Perchè succede tutto ciò?
Secondo me il mondo si divide grosso modo in due parti: quelli che il web lo mangiano a colazione e quelli che non ci capiscono un'acca.
I primi sono da mesi su Google Plus (che ha aperto ieri ai comuni mortali), si fanno le TweetChat e pensano tutto ruoti intorno a Internet: non si può vivere senza. Molti di questi smanettoni hanno aperto un'agenzia. Non sempre queste agenzie (e anche alcuni colleghi professionisti) hanno interesse a "educare" il resto del mondo che non distingue un blog da un tweet (in un recente corso, nessuno dei miei 35 partecipanti sapeva cosa sono i Feed RSS); anzi, salvo rare eccezioni, fanno di tutto per mantenere i clienti nell'ignoranza, come traspare da questo post del blog di Alessandra Farabegoli (che, anche se non la conosco personalmente, stimo molto).
Lasciano capire che il web è una cosa complicata, difficile, meglio lasciar fare a loro che sono degli espertoni; che magari poi a gestire i social media per le aziende clienti ci mettono lo stagista, porello, appena arrivato dai banchi di scuola e sottopagato (quando va bene, perchè quando va male lavora gratis).
No, dico: I social media; la comunicazione via web; la voce di un'azienda, la voce UFFICIALE di un'azienda. i post, i tweet, i commenti, gli aggiornamenti fatti a nome di un'azienda. Magari anche un brand piuttosto importante. Che una volta fatti non si possono cancellare. E che si possono poi tradurre in disastri tipo Patrizia Pepe, di cui ho parlato in questo articolo. Il mitra in mano ai ragazzini.
Ora le aziende, i "poveri" ignoranti, magari per un po' si lasciano circuire da questi pseudoesperti, e magari per colpa loro fanno anche qualche brutta figura sul web, poi si accorgono.
E allora delle due l'una: o hanno imparato la lezione, fanno il mea culpa, si mettono umilmente a imparare e prima o poi tornano sul web nel modo giusto (che dirò poi); oppure dicono che Internet non funziona, che è una fregatura, che è pericoloso, che è inutile. E perdono un'opportunità. Restano indietro. E come dice Seth Godin nel post di oggi, avanti o indietro."The good old days are old". And gone forever, aggiungerei io.
L'estremo opposto è quello di chi è consapevole di sapere poco e niente di web ma ci si butta lo stesso (come l'azienda di cui sopra) perchè "non si può non esserci". Non è un mitra, è un fucile a pallettoni, ma è pericoloso lo stesso.
Qual è il modo giusto per stare sul web, per una piccola o media impresa (ma anche una grande, perchè no)? A mio modesto parere (per quel che vale):
- i social media ce li si fa da soli; non è così complicato nè difficile; si impara. Semmai si mandano i dipendenti a qualche corso ben fatto (evitare agenzie di cui sopra), oppure si da loro un po' di tempo per informarsi e fare pratica. Basta sapere un po' bene l'inglese e capire come si fa a comunicare. L'ho fatto anch'io, non è impossibile. Leggere per esempio "The new rules of marketing and PR" di David Meerman Scott, che ha detto tra l'altro questa perla oggi su Twitter. Generare idee, non contatti per la vendita.
- siccome tutti si buttano sui social media la gente si sta stufando; il trucco per riuscire? fate l'interesse del lettore, non il vostro, come dice con parole sante Brian Solis in questo articolo della Harvard Business Review (leggetevelo, l'inglese non è poi così difficile).
Scusate lo sfogo. Ogni tanto ci vuole.
(Ora, qualche agenzia seria e competente c'è; ma purtroppo ce ne sono anche tante che non sono né serie né competenti. Mi arrabbio molto quando le incontro, a volte fin troppo, e un po' esagero.)
Grazie Riccardo
purtroppo sperimento tutti i giorni i danni fatti sul campo da queste agenzie che non vogliono educare il cliente, sotto forma di ferite di guerra come report bellissimi ma inutili, soldi (tanti) sprecati e imprenditori disorientati e diffidenti nei confronti di chi si propone di aiutarli nella comunicazione.
Ci vorrebbe unetica, e più professionalità.
Scritto da: Cristina Mariani | martedì, ottobre 04, 2011 a 11:35 m.
Ottimo post, molto ispirato e anche con quella giusta dose di coraggio nell'affrontare, a viso aperto, il "problema" delle agenzie già introdotto da Alessandra Farabegoli. Siamo sempre allo stesso punto: ai professionisti piace vendere, ai bravi (e utili) professionisti piace anche educare, formare, far capire. Perché il risultato, misurabile, deve essere quello di vedere un proprio cliente che "impara" a comunicare, non rendersi indispensabile per avere la firma sul prossimo progetto, spesso uguale al precedente. C'è molta cultura comunicativa da creare, cosa che porterebbe benefici diretti sia alle aziende che ad agenzie e professionisti. Alcuni insegnano a mirare e a sparare, altri danno il mitra e se ne lavano le mani. In un caso c'è evoluzione, nell'altro una guerra tra poveri. Stiamo a vedere.
Scritto da: Riccardo Polesel | martedì, ottobre 04, 2011 a 09:45 m.